Le cose brutte accadono all’improvviso. Qualcuno direbbe: “Quando permetti alla vita di decidere per te”. In quei momenti non ci pensi, ti fai solo sopraffare dagli eventi e ti si spezza il fiato. Così poi inizi a pensare a cosa tu abbia mai sbagliato per trovarti in quella situazione e ti vorresti proteggere con un’armatura ma l’unica cosa che ti viene da fare, d’istinto, è quella di metterti in posizione fetale e piangere. Con le braccia tra le cosce e le spalle rivolte verso le ginocchia. Torniamo nella posizione che avevamo da bambini, nella pancia della mamma, perché è quella in cui ci sentiamo più protetti; come se non bastasse il buio di una notte intera a nasconderci.
A me è capitato spesso, di volere solo il silenzio attorno per giorni, senza voglia di alzarmi e di pensare. Prendevo boccette di Xanax per non sentire dolore per ovattare il mio status ma così facendo mi allontanavo sempre di più da quelli che erano i valori, per non dover fare i conti con la realtà. La paura ci immobilizza e ci fa indietreggiare anche su quelle che credevamo essere le nostre sicurezze. Io prima di sentirmi così ne avevo tante, le mettevo in pratica e avevo fatto tanti passi avanti. Il problema delle persone empatiche è che come riescono a trascinare gli altri si fanno trascinare e le energie scarseggiano.

Ieri riflettevo sul fatto che non riuscivo a darmi pace, mi sovviene tutt’ora una rabbia paralizzante, quando vedo persone buttare via il loro potenziale, mettendo muri tra loro oppure indossando una maschera. Quei personaggi che vogliamo dimostrare di essere hanno vita breve, l’essenza di noi viene sempre fuori alla lunga, meglio essere sé stessi anche quando si è attori scomodi su un palco che non sempre è il nostro.
Questo mi fa venire in mente una frase che mi disse una mia cara amica che non vedo spesso ma da ottimi consigli sui quali lavorare per quanto riguarda la crescita personale. Ci conosciamo da quando siamo piccole eppure ci si sente e vede poco perché ognuna di noi ha la sua vita. Quella sera, prima di dormire avevo ricevuto un messaggio poco carino, di quelli che ti preannunciano l’insonnia e sentivo il cuore staccarsi dal petto e lo stomaco iniziare a “crampeggiare“. Glielo dissi e lei mi disse di lasciare stare, di non rispondere perché quello in cui volevo a tutti i costi stare non era il mio palco e che avrei dovuto uscire di scena con dignità. La ascoltai e al mattino la stessa persona che mi aveva scritto mi ricontattò come pentita. Pensai che alle volte non dire niente significa già, di per sé, dire tutto.
Ci sono quelle sere in cui è meglio tacere, per ascoltarsi per capire se il palco sul quale siamo in quel momento è il nostro oppure no. Se dobbiamo lasciare o continuare con il secondo atto.

Mi viene in mente un’altra cosa, sempre riguardo le metafore teatrali. Ero a un funerale e l’atmosfera di un funerale non è mai bella ma la persona per cui ero venuta a far visita era una persona che amava vestire a colori così di riflesso capivo perché alcuni vicini a lei avessero accuratamente evitato di vestire di nero. Quello era l’ultimo atto di una vita e così si cerca di assecondare il più possibile. Quel giorno, tornata a casa, rimasi a riflettere su quanto fosse imprevedibile la vita, alcuni direbbero: “Un giorno ci sei, il giorno dopo chissà“. Così, ora mentre scrivo ripenso a quanto devo essere grata, nonostante qualche delusione e gli imprevisti, agli atti che possono ancora vivere sul mio personale palco. Anche quando mi viene da piangere perché mi sento di voler uscire di scena devo pensare che ogni saggio, ogni spettacolo ha il suo intervallo.
Prendere una pausa per noi stessi è importante, non possiamo indossare sempre la stessa maschera o cambiarne il più possibile per non abbandonare il palcoscenico. Sono metafore ma il sottile senso di vita che sto cercando di darvi in questo momento è autentico. Capire questo è un passo per iniziare la propria personale ricerca della felicità.

Bellissimo articolo, dà molto da pensare….