BANGKOK – 21/Ottobre/2019 – Adesso vi racconto una cosa… quando sono stata male, volevo accanto a me solo due persone. Come, quando da piccola vuoi solo mamma e papà. Mi vergognavo tanto e pensavo di poter avere il controllo, di scegliere a chi raccontare ciò che mi era accaduto. Però così non fu. Le voci sono più veloci di un pensiero, alle volte, e mentre un pensiero si può facilmente nascondere, il parlare a sproposito, purtroppo no. Così il senso di vergogna saliva e avrei voluto andare ovunque pur di non ascoltarlo. Mi svegliavo di notte senza riuscire a respirare con il cuore a mille e la testa pesante.
Cercavo di giustificarmi, di raccontare le mie ragioni di una cosa che non capivo neppure io, ma più mi alteravo e più mi sembrava di aprire bocca senza far uscire fiato, come se nessuno volesse credermi. E mi ossessionava pensare che gli altri seduti al tavolo di un bar o al centro commerciale stessero parlando di me come se fosse l’ultimo gossip. E non sapendo cosa potessero dire; io pensavo al peggio.
Mi stavo convincendo di aver perso soprattutto la speranza. E se mi lamentavo, avevo da loro risposte del tipo: “… figurati se una persona non può più parlare con un amica” e mentre si confessavano tra loro, intanto il mio accaduto si espandeva a macchia d’olio. Quello che non avrei voluto neppure raccontare a un prete era ormai di pubblico dominio. Io convinta di essere nel giusto pensavo: “parlare, o sparlare? di ciò che non vi compete che non avreste mai dovuto sapere” e piangevo. Piangevo in doccia, nel letto, in cucina, sul water e non avrei mai voluto uscire da quelle quattro mura. Per dimenticare ciò che avevo visto fuori. Apatica, stremata e grigia come l’energia prosciugata che non trova altra energia per ricaricarsi.
Poi sono partita, per la mia città preferita al mondo (New York) e stavo male anche lì ma almeno ero lontana, ignorando che mi ero fatta male per prima da sola. Avevo riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate. Devo perdonarmi. Ora sto facendo un percorso che parte da me. In Thailandia c’è una filosofia buddista che dice quanto sia importante saper suddividere le cose, osservarle una ad una, libera la mente dal caos. Ho voluto crederci.
Non ascoltiamo nessuno quando vogliamo a tutti i costi fare una cosa. Senza pensare che sia giusto o sbagliato, la facciamo e così nascono le cose più intense.
Cremona – 30/Ottobre/2019 – In un percorso in cui mi sentivo un camaleonte, convita del fatto che molto spesso la vita ci da solo un giorno e non un’eternità intera, mi sono detta: “È ora di lasciar andare i ricordi e con loro la sofferenza. Solo cercando altre strade e nuove prospettive illumineremo la mente, buonanotte mentre su Bangkok scende la sera”. Era il 20 ottobre 2019, ricordando i giochi di prospettiva esattamente di un anno prima. Quando persi la mia per seguire quella di un’altra persona. Esattamente a distanza di un anno ho voluto ritrovarla e ritrovarmi. Con nuove certezze e convinzioni.
Per i più cinici posso dire che non è suonare una campana o mettere 108 monete dentro 108 vasi l’inizio di un cambiamento ed un percorso di viaggio. E’ la mente, ciò in cui crediamo per davvero, che ci modifica, che ci porta ad un cambiamento introspettivo e veramente sentito. Così ci mettiamo in quella condizione di poter essere noi a decidere per le nostre vite, a credere che possiamo modificare la nostra filosofia e le nostre abitudini che ci vanno strette.
Mia madre diceva: “Devi andare a sbatterci la testa prima di capire che fa male” è tutto vero, sbattiamo la testa, tocchiamo il nostro fondo e poi torniamo a galla perché generiamo nuove credenze di sopravvivenza. Io mi sono ripetuta tre parole ancora ogni volta che mi inginocchiavo per pregare e sperare: “Equilibrio, serenità e perdono” – Le ho fatte mie, ritrovando la mia empatia perduta e poi il Buddha Thailandese ci ha messo del suo per non farmi diventare quello che mi avevano fatto.