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Mio padre non è nato a Cremona, era originario di Reggio Emilia, la nonna era Veneta (di Padova) e per lavoro e un pizzico di sfortuna, lui e la sua famiglia, sono stati spesso costretti a cambiare casa. Mio padre aveva una sorellina, ogni tanto me lo raccontava, non ricordo se fosse nata morta o venuta a mancare in piccola età ma raccontava di lei con estrema tenerezza. Mi sforzo ma non ricordo come si chiamasse. Ogni tanto, quando andavamo al cimitero mi diceva che c’era un posto dove seppellivano i “bimbini” come li chiamava lui, che erano anime bianche.

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Mio padre era nato appena dopo la seconda guerra mondiale, nel 1944, quando l’Italia non aveva niente, nel silenzio e così se n’è andato allo stesso modo nel 2020

 

Era il 28 febbraio quando mi chiamò per dirmi di avere qualche linea di febbre. Me lo disse con un misto tra lo stupito e lo stranito: aveva fatto come ogni anno l’anti-influenzale. “ Dì, sai Bettina che ho anch’io qualche linea di febbre? 37,6” – gli dissi che doveva stare in casa a riposo e non uscire, che era un po’ di alterazione e che sarebbe passata. Poi chiesi: “Alla Mara l’hai detto?” E lui mi rispose: “ No. Lo sai che sei tu la mia referente  le queste cose” – mi fece tenerezza, io non ero mai stata la sorella maggiore. Ma ripensai alle parole di mamma, quando diceva che se fossi stata io la più grande le cose sarebbero andate diversamente.

Io non stavo bene, continuavo a tossire, non mangiavo e non riuscivo ad alzarmi dal letto. Avevo fatto portare le bambine dai nonni, disdetto ogni impegno di lavoro e aspettavo, aspettavo che quel dolore ai muscoli delle gambe che mi impediva di camminare, curato solo con arnica tre volte al giorno, passasse. Ma nel frattempo subentrava la tosse, il mal di testa, la stanchezza e il respiro corto. Iniziavo a pensare che questo virus giunto a noi dall’oriente fosse arrivato davvero anche qui. A Cremona, una città tranquilla nella quale non succede mai niente, non volevo crederci.

Con papà ne avevo parlato, ne parlavamo spesso, ogni giorno, per telefono (perché ovviamente non potevamo vederci) non ricordo se iniziasse a credere anche lui di essere infetto ma ricordo che mi spronava a portare avanti i miei progetti di lavoro e di non pensare al peggio. Così mi sentivo al sicuro. Eppure una parte di me, quella che aveva girato in metro per mezza Manhattan da sola ed era stata costretta a rinunciare al viaggio di lavoro a Parigi non riusciva a togliersi dalla testa che in quella influenza ci fosse qualcosa di più; di diverso.

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COVID19: I MIEI SINTOMI, QUELLO CHE RIESCO A RICORDARE DEGLI ULTIMI GIORNI CON PAPA’

Stavo talmente male che non riuscivo a tenere gli occhi aperti, a concentrarmi. Non ricordo neppure se prima del 28 febbraio papà passo da casa a portarmi dei farmaci, forse passandomeli attraverso il cancelletto del giardino. Era sempre molto caro. Eppure ricordo nitidamente due cose. La prima quando gli dissi che avevo finito la Tachipirina e lui mi rispose secco: “NO! Io oggi non esco perché non ce la faccio” ma la mia non era una richiesta, ci sarebbe andato Diego. Pensai fosse tanto stanco anche lui. E ricordo nitidamente quando mi arrivò la proposta per un bel progetto per la Festa della Donna. Mio padre era entusiasta. Papone era fiero di me e quando andavamo a fare la spesa insieme fermava la gente per dirgli che ero stata a New York per la fashion week e che sarei andata a quella di Parigi, parlava del mio blog come se fosse una testata giornalistica pari al Corriere della Sera e io mi sentivo, sempre, un po’ in imbarazzo, lo ammetto. Mi vedeva più importante di quello che ero e probabilmente che mai sarò. Ma a me la fama non è mai importata molto, gli spiegavo che per me quello che era davvero importante era scrivere, poter fare qualcosa per aiutare gli altri a non soffrire come ho sofferto io e che la mia passione per la moda e i progetti era tutto legato ad un fattore di creatività.

Il giorno in cui ricevetti la proposta per il nuovo progetto lo chiamai. E gli chiesi cosa dovevo fare. Avevo la febbre da una settimana e seppur non fosse alta, saliva e scendeva. Lui era contento perché si era sfebbrato da un giorno e io mi sentii alleggerire il cuore. “ Lo devi fare Bettina! Scherzi? È una cosa importante per te” pensai a tutte quelle volte in cui per la Festa della Donna si svegliava prestissimo e andava a prendere le mimose per me e per tutte le donne che conosceva. Dalla cassiera del supermercato alle ragazze del McDonalds dove si sentiva un po’ a casa quando si trovava a mangiare da solo la sera. Mi sentii sollevata e accettai il lavoro. Non ero sola.

Mentre dormivo molto, nelle poche ore in cui ero sveglia lavoravo al progetto. Ero così soddisfatta. Poi una mattina lui mi chiamò dicendomi: “Sai Bettina, mi è tornata la febbre, oggi ha superato i 38. È meglio che chiamo il medico” poi mi chiese come stessi. Io avevo una tosse pazzesca, faticavo a parlare. “Papà ma se abbiamo preso il virus? Forse è meglio che rinuncio al progetto, che facciamo il tampone” – non volle sentirne parlare, disse che avrebbe chiamato il numero verde che non avremmo fatto nessun tampone: “ No, è il nostro segreto, lo sai che è top secret”. Forse entrambi avevamo paura di essere contagiati, dentro di noi iniziava a concretizzarsi il dubbio eppure non eravamo pronti a sentircelo dire. La nostra paura non era  tanto di aver contratto il  virus  ma di una forma di razzismo che ci avrebbe fatto apparire come untori davanti ai nostri concittadini e all’Italia intera. Con il senno di poi non so cosa avrei fatto tornando indietro a quel preciso momento, forse mi avrebbe convinto lo stesso. Il progetto mi dava soddisfazione, era un modo per parlare di donne in un modo innovativo e non volevo rinunciare. Era troppo tempo che non mi sbizzarrivo in qualcosa che non fosse una semplice marchetta ma un elogio a quello che siamo noi femmine, madri, donne e mogli. E poi “Top secret” mi piaceva, mi ricordava i cartoni animati di Lupin e i libri di Sharlock Holmes che facevano parte della mia infanzia con papà. Anche se lui per 14 anni non ha vissuto con noi e tornava a casa solo il venerdì sera: aveva un ruolo d’importanza in una grande azienda e lavorava a Milano.

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La paura di essere positivi al covid19 condivisa con papà: quando lo abbiamo sottovalutato

Top secret” – chissà quali fossero le sue paure in quel momento, chissà come riuscisse a celarmele così bene. Io ero ancora convinta che se avessimo avuto davvero il covid19, il che sembrava una leggenda al quale nessuno dei due voleva credere, saremmo guariti.

Ora mi viene un flashback e ripenso a quando dopo la sua morte entrai per la prima volta in casa sua. Aveva comprato il giornale di qualche giorno prima. In prima pagina si parlava di allarme nazionale delle prime zone rosse. Lui era uscito per comprare quel giornale, per capire quanto grave fosse la situazione. L’ho conservato in un cartone con la bozza stampata del libro che stava scrivendo su “Cremona e il suo vino” e il pc. L’ho conservato perché noi non lo sapevamo ancora il 25 febbraio 2020 si stava scrivendo una pagina di storia. Una storia che me lo avrebbe portato via da lì ad una decina di giorni e io non ero pronta a trovarmi a faccia a faccia con il Covid19 e la sua brutale voglia di spezzare legami e distruggere famiglie intere.

Tu, hai sempre il respiratore con te, vero? Lo usi?” – chiesi – “ Certo Bettina, che scherzi? Se mi servirà lo userò ma puoi chiedere al Dieghino di portarmi una nuova scatola di Tachipirina 1000 e la Rinazina, perché l’ho finita e io non mi posso muovere. Mi ha detto il medico del numero che ho chiamato che mi monitorano per telefono e di stare a casa” – al momento lo trovai assurdo, un immunodepresso che doveva essere curato per telefono.ok, però tieni sempre vicino il respiratore, promesso?” – “ si, si, promesso!”rispose.  Chissà se lo avrà mai usato… a volte prometteva ma poi faceva di testa sua e mi chiamava perché  nel sonno cadeva dal letto. Era convinto che lo spray per il naso potesse salvargli la vita. Iniziavo a crederci anche io. È così strano quando ti accorgi di essere così tanto figlia anche se sei madre. Mi sentivo la sua bambina a 32 anni anche se forse avrei dovuto essere un po’ mamma anche per lui.

Dentro di me si faceva sempre più viva l’ipotesi di essere stata io a contagiarlo, con quel bacio immortalato in foto il 17 febbraio, ma l’amore, il tanto amore, poteva mai aver fatto una cosa così brutta…? Non lo so, credo solo che se così fosse, la vita sia ingiusta…

Continua…

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Elisabetta Bertolini

The author Elisabetta Bertolini

Nata a Cremona nel 1987, Elisabetta Carlotta Bertolini è una blogger e influencer appassionata e fantasiosa, sempre attenta alle ultime tendenze della moda. Diplomata al liceo artistico, alterna la sua vita da blogger fashionista a quella di dolce mamma della piccola Gaia. Il suo blog nasce nel 2013, esattamente il 27 marzo, e in soli due anni si afferma come uno dei più seguiti a livello nazionale e internazionale.

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