Siamo cresciuti in strutture scolastiche fatiscenti i cui servizi igienici venivano etichettati come “pisciatoi” e non avevano tutti i torti. Ci abbiamo pensato in tanti di scrivere un insulto a pennarello indelebile sulla proff di matematica e qualcuno di noi lo ha anche fatto; forse proprio io che sto scrivendo. Ma i nostri genitori anche potendosi permettere la scuola privata avevano scelto di iscriverci alla pubblica per farci fare le ossa, in un afflusso di umiltà! E così siamo venuti su più forti e consapevoli, cresciuti bene, o quasi. Come ci volevano!
Mi ricordo nitidamente quando suonava la campanella, l’intervallo, fuori dalle classi, in mezzo a corridoi tutti uguali. Che se dovevi portare indietro un libro alla prof di 2A rischiavi di perderti ogni volta come Sarah in Labyrinth. E proprio lì, tra quei corridoi, ogni giorno allo scoccare dello squillo di campanella scendevano i bulli. Quelli miei erano tre, scendevano le scale “a triangolo”. Davanti lui, brutto come la fame, con il ghigno provocatore di chi al mattino non riesce a guardarsi allo specchio però sa già che faccia fare. Lo chiamavano “Pera” forse per la forma del suo corpo, forse perché qualche droga la assumeva già a 13 anni! Seguito a ruota dal belloccio di turno, lui che rideva solo alle battute e non parlava molto. Che probabilmente obbligavano a “prove” per restare nel branco. E ultimo un ragazzo alto, color cappuccino con il gel nei capelli ricci e il viso cupo più scuro di quella che poteva essere scambiata per una carnagione un po’ abbronzata. Loro tre: il numero perfetto. Forse uno di quei motivi per cui ho sempre preferito il numero “quattro”.
E quante volte ho trattenuto la pipì all’intervallo fin quasi a farmela addosso per non uscire in corridoio con gli altri, mentre i miei compagni di classe correvano, urlavano e giocavano e le ragazzine si scambiavano le dediche sui diari della “smemoranda” con le biro, quelle colorate metalliche. Quelle che io avevo tutte custodite gelosamente nell’astuccio, quelle che mi comprava la domenica il mio papà per sentirsi meno colpevole di lavorare in un’altra città tutta la settimana e tornare solo il sabato sera per ripartire subito la domenica. Io disegnavo al banco, da sola. Oltre a me dall’altra parte della stanza qualche compagna un po’ timida che dopo essere andata in bagno mangiava la mela leggendo un libro. Quelle che per noi che di libri ne masticavamo solo lo stretto necessario, erano definite le “secchie” che in gergo stava per: secchione.
Ma ogni tanto mi toccava uscire, prendendo coraggio e magari accompagnata da un’amica. Sperando di non incontrare mai il trio e di rientrare in tempo per non farmi andare di traverso la focaccia.
Io che di pesi addosso ne avevo più di 120 kg, ma ero così ingenua da non sapere che sarei potuta essere mai diversa da così!
E la mamma che ripeteva sempre che un domani sarei sbocciata, ma questa è un’altra storia…
Tornando a loro, li incrociavo e partiva la scenetta. Se mi addocchiava, e vi assicuro che era quasi impossibile per una della mia stazza farla da fantasma, mi veniva incontro, iniziava ad abbracciarmi e davanti a tutti scherzarmi dicendo che ero la sua “ragazza”. Io che a 11 anni di tutta quella sfera di affetti non ne avevo ancora fatta scoperta non potevo fare altro che vergognarmi. Per la sottile e bieca ironia, per il disagio di sentirmi al centro dell’attenzione. Io che volevo solo stare “dentro” a nascondermi. E mi saliva una rabbia e nel mio silenzio cercavo come una scaletta per trovare le parole e spingerlo via facendogli male lo stesso.
E sono tutte cose che poi superi nel tempo, lasciandole alle spalle, con la psicanalisi e una bottiglia di vodka alla pesca all‘uscita dallo studio del dottore. Ma una parte no, una parte ti resta addosso sempre ed è con quella che cresci e gliene sei grata perché è proprio quella che ti ha reso la persona che sei. Diversa dagli altri che non hanno mai sofferto, empatica e in grado di dare aiuto.
Superiamo tutto, anche quello che crediamo di non poter superare. Adesso è ovvio, lo so ma al tempo nessuno me lo ha mai detto prima e se lo ha fatto io non ne ho ricordo.