Durante la mia adolescenza, sono stata ricoverata per anoressia in una struttura di neuropsichiatria infantile. È stata una mia scelta entrarci perché pensavo di stare molto male. Avevamo perso la casa, i miei genitori stavano traslocando in un altro comune alle porte della città e il mio “morosino” dell’epoca mi aveva lasciata. Insomma uno di quei periodi in cui niente si incastra come dovrebbe.
Sono stata ricoverata per due settimane. Durante le quali mia madre è venuta a trovarmi una sola volta. Solo dopo la sua morte mia sorella mi disse che la mamma sarebbe venuta ogni giorno ma non le era consentito. Per me è stato dolore che ha trasformato la mia anoressia, (ndr:per chi non lo sapesse, consiste nel privarsi del cibo per molto tempo) in bulimia (ndr:mangiare fino a stare male o mangiare e poi indursi lo stimolo per rimettere il cibo). Lo facevo per punirmi perché non mi sentivo amata.
Quattordici giorni in una clinica di neuropsichiatria infantile per curare l’anoressia. I miei ricordi di quando a 16 anni ho scelto di farmi ricoverare perché stavo troppo male.
Durante la mia degenza condividevo la stanza con una ragazzina visibilmente in sovrappeso che soffriva anche lei di disturbi alimentari gravi. Sì perché l’anoressia non è solo quella fisica ma soprattutto mentale. (Ndr: non c’entra quanto pesi ma come ti comporti nei confronti del cibo.)
Lei aveva quei lineamenti dolci distrutti dall’autodistruzione. Si era tagliata i capelli da sola ed erano asimmetrici, con il tempo ho scoperto che i capelli non erano l’unica cosa che si era tagliata. Soffriva talmente tanto che aveva ingerito un cocktail di candeggina e vetri. L’avevano salvata per un pelo; qualcuno direbbe:” quando non è la tua ora”.
In quei giorni io passavo molto tempo al Pc, avevo accordato di farmi ricoverare con il permesso di tenere almeno il mio computer, non perché ci fosse la connessione ma perché ho sempre amato scrivere. E i medici, di cui invece non ricordo i volti, mi dicevano che poteva solo farmi bene.
E proprio mentre scrivevo alla finestra, lei mi raccontava il suo dolore. Dentro di me pensavo se mai avrei provato qualcosa di simile. Non avevo e non ho competenze neuro- psichiatriche per sapere se avesse una patologia, semplicemente io l’ascoltavo. Fu lei a darmi la dritta dell’acqua. La chiamo così perché prima di quel momento io non mangiavo, oppure mi sfondavo di palesata fino a svenire durante l’intervallo. Bevevo solo succo di frutta e un grissino al giorno. Avevo sempre freddo. Poi lei mi insegnò la dritta dell’acqua, ossia che potevo mangiare quello che volevo bevendo abbondante acqua gassata. In quel modo avrei vomitato più facilmente il cibo. Mentre parlava io non riuscivo a fare a meno di osservare i suoi capelli con quei tagli netti e le sue guance paffute, pensando a come fossero stati prima di quella sforbiciata piena di rabbia.
Io ho sempre avuto questo bisogno di osservare e scrutare le persone e nella mia testa descriverne i caratteri. Questo può essere scambiato con troppa empatia.
In questi giorni ho pensato molto a lei e alle altre ragazze di quei quattordici giorni. Anche se non ricordo il suo nome la penso spesso. Chissà se mi leggi, spero che tu abbia trovato la serenità che ognuno di noi merita.